Piangere auto e moto d’epoca perché a Padova non ci sarà più la Fiera, nasconde un vivo imbarazzo verso la tendenza di riferirsi alla città zampettando tra confuse immagini avveniristiche e idee di funzioni a-spaziali, perché digitali.
La a-spazializzazione, richiederebbe una più attenta analisi dei sistemi urbani e delle relazioni di co-evoluzione dell’insediamento urbano con l’ambiente, che rispecchiano la definizione di territorio. Quando usiamo il termine di co-evoluzione, identifichiamo quella relazione biunivoca che conforma la città e i suoi cittadini attraverso i secoli, facendo proprio delle necessità di spazio e di collocazione, il divenire delle nostre città a partire dal proto umanesimo fino agli sventramenti tardo ottocenteschi, del ventennio e alla città diffusa, voluta dalla prassi mercantilistica speculativa della fine 900.
Ora, i limiti di una city vision e per alcuni aspetti, delle fascinazioni insite nel metaverso, stanno proprio nell’ipotecare il futuro della città con suadenti pensieri Smart, internet of things, promettendo di far funzionare in modo intelligente e esaustivo la gestione delle Pubbliche Amministrazioni, delle infrastrutture e dei sottoservizi. Il paradosso sta proprio nel fatto che se una cosa funziona bene non significa che si abiti meglio! È proprio questo il punto debole dell’intelligent city che giovani Steve Jobs alla ribalta, propugnano con devota fede nel futuro digitale dove tutto sarà splendido, monitorato, controllato, sicuro, efficiente, sostenibile e immacolato.
Obiettare non significa essere contro la tecnologia! Va riconosciuta però, nel suo specifico significato di strumento, non di fine. Certo, può diventare volano di rilancio economico, di riuso, di rigenerazione ma non definisce la qualità delle relazioni tra il cittadino e il luogo che abita. Questo è il vero tema da studiare nel passaggio in corso tra la post metropoli e la città digitale.
Non è un caso che city vision sia proprio una visione dove aziende private, pubbliche amministrazioni, neonati manager, Università si proiettino con stupefacente banalità per far funzionare al meglio le città, intese come sfondo costruito per funzioni intelligentissime. Ancora una volta si confonde la funzione con la forma-città (architettura della città!), come già successo con la degenerazione del funzionalismo degli anni 20 del secolo scorso, delle metropoli di Hilberseimer, delle speculazioni degli anni 60 e per certi aspetti, della conseguente reazione delle neo avanguardie radicali, non stop city ecc.
Il nostro destino e delle città nell’epoca digitale, richiedono un pensiero capace di progettare il disordine, molto più complicato dell’intrattenimento di festose giornate high tech; non basta riferirsi all’Europa e alla transizione ecologica in atto, per scacciare pensieri ben più articolati. L’investimento di milioni di euro della finanza sul metaverso e la Smart city non comprova che sia la strategia più idonea per far fronte al baratro in atto delle diseguaglianze spaziali, del ghettizzare le città (aumento della popolazione, invecchiamento, sicurezza) e del continuo spreco delle risorse ambientali, ma solo, testimonia l’interesse economico per alcuni aspetti settoriali dello sviluppo delle città. Come capirete, la city vision potrebbe essere un’ottima chance se comparata con un’idea di city in co-evolution, in questo senso gli stati generali delle città intelligenti saranno allora dei mezzi molto pertinenti. In mancanza di un approccio co-evolutivo del territorio-città, inteso come divenire delle relazioni tra uomo e ambiente, i mezzi saranno i fini, accentuando il proliferare di aree urbane virtuose, efficienti, differenziate, privilegiate, ma anche del principio di esclusione. Secondo paradosso: la città smart efficiente, intelligente, funzionale, sostenibile è settoriale!
Il “quartiere fiera” è da considerarsi come “luogo” non come “sito”, similmente a quanto si dovrebbe preferire nei riguardi dell’Arcella, della stazione, del PP1, del martoriato Boschetti, del ridicolo Euganeo, dell’aspettante Teatr-ot moderno, delle periferie, delle ex zone industriali, secondo rinnovate letture di relazioni, di multi-abitabilità, di urbanesimo, come è successo prima che il mantra dello zoning si impadronisse dell’urbanistica per mero interesse economico-razionale (si pensi alle vicissitudini della città post industriale, o ai limiti del Piano degli Interventi di Pd proprio per aver confuso la rigenerazione urbana come una redditizia Zona Territoriale Omogenea).
Non esiste la specializzazione delle aree urbane seppure in veste smart, contraddice il principio di abitare antitetico a quello di usare la città!
E che sia una fiera virtuale! Che sia il grande albergo per la convegnistica dell’eccellenza nel palacongressi fantasmagorico, ben venga il masterSMARTplan; il funzionalismo tardo ottocentesco è sempre in agguato, benché infarcito di innovativa smart fashion.
Quando si parla di città, meriterebbero una maggiore attenzione le sue complessità e contraddizioni senza intonare riti novecenteschi: progressisti vs conservatori, modernisti vs passatisti, sviluppo vs ritorno alla candela, comunisti vs fascisti…banalizzazioni che nascondono i consueti pruriti di casacche e in questa nostra mesta realtà, disarmanti incapacità di articolate visioni camuffate da fuggevoli clamori di applauditi intrattenimenti.