In questi ultimi anni, l’indifferenza verso la specificità dei materiali dell’architettura e la totale assenza di un razionale pensiero critico, collettivo e condiviso consentono che il fare urbanistico-architettonico si caratterizzi di elementi non propri relegandolo in una ridicola tautologia delle forme secondo i capricci e le frivolezze del mercato globale.
Inevitabili sono le inconclusive direzioni che parlano di qualità dell’architettura in termini abusati di ecologia, di sicurezza, di prestazioni energetiche, di benessere affidato alle soluzioni impiantistiche, di pubblico solo perché partecipato il processo che la illustra. Un’invasione che accresce la confusione e annulla la realtà dell’architettura e del suo significato; un continuo sovrascrivere dovuto al vuoto lasciato dall’incapacità di aggiornare un’impostazione metodologica.
Insistere sull’architettura della città significa rinnovare i dimenticati materiali dell’architettura e della sua costruzione logica; è saper leggere le cartografie, i tipi edilizi, le morfologie del costruito, i luoghi e i fatti urbani, le relazioni e la complessità, è soffermarsi sulla loro analisi e rielaborazione per definire nuove esperienze di “tendenze” capaci di realismo; realismo inteso come ricerca nella tradizione di modelli atti ad esprimere i sentimenti di una nuova cultura del progetto urbano.
I materiali dell’architettura sono secolari e il contributo di alcuni maestri del novecento è stato proprio quello di ridefinirli plasmandoli in modo razionale, rigoroso, scientifico e costruttivo secondo un impegno collettivo che è diventato teoria e pratica; molto si deve infatti alla generazione dei Gregotti, dei Rossi, dei Secchi, dei De Carlo, dei Canella e di tanti altri ancora, un orizzonte di silenzio da risvegliare.
Il loro lavoro di ricerca non può essere disperso per la nostra incapacità di saper vedere il contesto oppressi come siamo da un mercato esasperato che accelera, separa, isola, semplifica, individua e mette in competizione sopprimendo ogni direzione ostinata verso il collettivo tipico dell’architettura come pratica artistica che si articola nel suo costituirsi (Vittorio Gregotti). Non sono abbastanza le occasioni che offre l’attuale società? La coscienza indispensabile nel nostro mestiere è sufficientemente stimolata? Da qui potrebbe essere utile partire con le dovute correzioni approfittando anche del dopo COVID che cela insidie e difficoltà di ogni pandemia mai conosciuta da molti di noi!
Nel nostro agire quotidiano è tempo di pensare l’architettura riportandola alla vita e alle relazioni; l’uomo non è un uomo di un paese o di una città ma è l’uomo di un luogo preciso e definito, non vi è trasformazione urbana che non significhi anche trasformazione della vita dei suoi abitanti (Aldo Rossi). Queste reazioni non possono essere facilmente derivate, previste e proiettate in un omologante ed universale modello ecologico renderizzato-topescape; finiremmo per attribuire all’ambiente fisico della città lo stesso determinismo che il funzionalismo ingenuo ha attribuito alla forma.
Il rischio è non riconoscere più quel bulimico neo colonialismo che indisturbato traccia le strade dei dogmatismi delle forme a priori dissociate da ogni relazione; esalta un’edonistica estetica fondata sul rinnovato punto di vista del gusto, della scomposizione speculativa di parti di città con voluto inganno ricorrendo a fantasmagorici addobbi di verzure e improponibili foreste o peggio, a scipiti slogan che tanto colpiscono l’immaginario dell’incolta provincia: smart city, green city, next city, in city, city life, intelligence city.
I materiali ci sono tutti e necessitano solo di una rinnovata metodologia che rompa gli schemi e i recinti del mercato e sappia rileggere la città come una grande opera da cogliere attraverso i suoi brani, i suoi differenti e articolati cambiamenti sempre rilevabili nel tempo, nella forma e nello spazio. L’unità di queste parti è data proprio dalla storia, dalla memoria che la città ha di sé stessa.
Privatizzazione della città, ingiustizie sociali e diseguaglianze spaziali sono i temi del nuovo racconto urbanistico che segnerà il futuro delle città; dobbiamo ritornare a progettare inseguendo quel necessario frammento di utopia della realtà capace di trasformare in una direzione praticabile per la collettività il quotidiano diversamente organizzato. È del presente che ci dobbiamo occupare, è l’oggi che va rivelato e cambiato attraverso l’immaginazione concreta non intesa come via di fuga o sublime inutilità ma come la ricordava Robert Musil: «l’utopia ha pressappoco lo stesso significato di possibilità».
Chi, invece, troppo sontuosamente parla del futuro malleabile e tecnologicamente controllabile promettendo benessere, città pulite e sorridenti apre in noi il sospetto che in questo discorso ideologia e virtuosismo si avvicinino pericolosamente per costruire insieme una falsa coscienza celatamente conservatrice, reazionaria e speculativa.
Essere speranza contro l’aver speranza! Non si abdica alle speranze anche se illusioni e delusioni segnano orme più ravvicinate lungo il cammino…